Prandelli: «Il calcio si gode, non si vende. Firenze nel cuore, la Juve non era un gruppo, ma in campo era un’altra cosa» | OneFootball

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·24 February 2025

Prandelli: «Il calcio si gode, non si vende. Firenze nel cuore, la Juve non era un gruppo, ma in campo era un’altra cosa»

Article image:Prandelli: «Il calcio si gode, non si vende. Firenze nel cuore, la Juve non era un gruppo, ma in campo era un’altra cosa»

Cesare Prandelli si racconta a 360°: «Puoi scomporre i principi, ma i concetti sono quelli, il calcio non si vende, si gode»

Cesare Prandelli si è raccontato in una lunga intervista a La Stampa, in cui ha parlato di vari argomenti: dalla vita personale tra la salute e la morte di sua moglie, gli anni tra Atalanta, Fiorentina, Juve e il calcio di oggi. Di seguito le sue parole.

COME È CAMBIATO DOPO LA MORTE DI SUA MOGLIE«Eh, eh, sicuramente. È una domanda che non mi è mai stata fatta. Sì, è tutto cambiato, ma poi cerchi di avere equilibrio anche per la famiglia. Però cambia tutto: prospettive, abitudini, tutto.»


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COME STA DOPO I PROBLEMI DI SALUTE«Diciamo che sto molto meglio. Poco tempo fa ho avuto una fortissima e improvvisa polmonite. Sono stati bravi i medici dell’ospedale civico di Brescia. Li devo ringraziare. Sono stato fortunato, adesso sto finalmente bene.»

IL GRUPPO DELLA JUVENTUS IN CUI HA GIOCATO«Degli anni con la Juve ricordo un gruppo che non è mai stato unito. C’erano i giovani, gli intermedi e i senatori. Ma quando si scendeva in campo diventavamo una cosa sola. Poi, dopo la partita, manco ci salutavamo. Nel tempo, nella mia carriera, quando sentivo e sento ancora parlare di gruppo facevo fatica a raccontare di quegli anni in bianco e nero. Ci sono tanti modi di fare gruppo, non bisogna per forza andare a cena ed essere amici.»

IL SUO LEGAME CON CREMONA E BERGAMO«A Cremona all’inizio andavo a scuola, poi papà morì e in fin di vita mi disse di non lasciare il calcio. Mi ha convinto lui perché non avevo tutte ste motivazioni. Mia madre, senza bei voti, non mi mandava agli allenamenti. Ci pensò la società, mi aiutarono con la scuola Luzzara e Miglioli, persone super, perché per il calcio facevo troppe assenze. Anche a Bergamo ho trovato un’altra famiglia straordinaria, i Bortolotti, riferimenti umani che mi sono portato dietro per sempre. Con Cesare eravamo veramente amici.»

L’ESPERIENZA DELL’HEYSEL«Ah beh, tutto. È stata una tragedia gigantesca. Lo stadio non era idoneo, dovevano controllare persino i calcinacci, ma niente. Ricordo benissimo che eravamo nello spogliatoio e vedevamo soltanto uno spicchio della curva inglese. All’improvviso entrarono centinaia di tifosi. Li facemmo passare perché erano bianchi, erano terrorizzati. Urlavano: morti, morti, morti. È stato angosciante. Non vedevano nemmeno, chessò, Platini, Boniek e altri campioni. Boniperti, altro signore vero, decise di non giocare, ma poi le solite dinamiche politiche… Il delegato Uefa spiegò che bisognava giocare altrimenti la situazione poteva peggiorare. Mah. Altra cosa da smentire: assolutamente falso che abbiamo festeggiato. Ci hanno costretti ad andare sotto la curva con la coppa per tenere tranquilli i tifosi.»

GLI INIZI DA ALLENATORE ALL’ATALANTA«Ho smesso di giocare presto per un problema al ginocchio. Facevo un lavoro più che altro tecnico. C’era un grande e unico spogliatoio per i vari tecnici e c’era una grande famiglia. Tutti insieme appassionatamente. Io, Finardi, Vavassori, Perico, Modenesi, Rubagotti, Savoldi, Gustinetti. Un solo progetto condiviso da tutti. E Mino (Favini) era giustamente fissato. Tecnica, tecnica, tecnica e solo tecnica. Ecco, da qui si dovrebbe ricominciare. Dai settori giovanili, dalla tecnica, abolendo moduli e sistemi di gioco fino ai quattordici anni.»

L’ESPERIENZA AL PARMA E IL MANCATO APPRODO IN CHAMPIONS«A Parma ho fatto due anni straordinari, era una squadra rivoluzionata e giovanissima. Siamo arrivati due volte quinti, a un punto dalla Champions, l’ultimo anno mancata per una partita persa con l’Inter grazie a un gol di Adriano che gli avevamo appena venduto. Dopo capitò il crack Parmalat e mi dispiace immensamente perché avevo un rapporto ottimo con la famiglia Tanzi, soprattutto con Stefano, un amico.»

L’ADDIO ALLA ROMA PER STARE VICINO A SUA MOGLIE«Roma era un sogno, ma è successo quello che si sa. Manuela ebbe una recidiva, non potevo lasciarla sola, le cure erano importanti, toste. Alla Roma c’era la famiglia Sensi e Franco Baldini. Sono stati meravigliosi. Tutti. Salutai i ragazzi senza dire di Manuela, non capivano, ma quando hanno saputo mi hanno fatto delle bellissime telefonate.»

IL RAPPORTO SPECIALE CON FIRENZE«Decisamente. Firenze è entrata, ci è rimasta e resterà sempre nel cuore tanto che vivo qui da allora. Ci sono amori che nascono spontaneamente, senza costrizione, senza costruzione. Il primo anno arrivammo subito in Champions ma nel secondo ci furono le sentenze per la cosiddetta Calciopoli. La sera eravamo improvvisamente in B a causa della penalizzazione. Era il giorno della presentazione della squadra ai tifosi. Erano tutti con la radiolina all’orecchio. Aspettavano notizie, non capivano, erano preoccupati. Mi sono sentito di parlare dal profondo dell’anima. Dissi loro che non potevo sapere che cosa sarebbe successo, ma che io sarei rimasto su quella panchina. Anche i ragazzi mi restarono accanto e da lì nacque questo rapporto incredibile con i tifosi viola. Che, ovvio, erano orgogliosi dei risultati e del bel gioco, ma Firenze ti ama se sei un uomo e se la rispetti. Il resto viene dopo.»

LE ESPERIENZE ALL’ESTERO«In Turchia ci furono promesse non mantenute, il presidente venne cacciato dal socio, la nuova proprietà cambiò l’allenatore ma mi mandarono via con il Galatasaray secondo in classifica. Alla fine vinsero e mi fecero una dedica che apprezzai moltissimo. A Valencia diedi le dimissioni dopo due mesi e mezzo perché non vennero mantenuti accordi tecnici, insomma le solite cose. All’estero, secondo me, o vai per soldi o perché hai una grande delusione. Questo è il mio caso. Lotito mi convinse ad andare alla Lazio ma mi tenne ventiquattro giorni prigioniero, ribadisco il termine prigioniero. Mi telefonava tutti i giorni raccomandandosi di non ascoltare altre proposte che arrivavano, invece, eccome se arrivavano. Poi presero Simone (Inzaghi). Così scappai letteralmente all’estero alla prima proposta.»

LA SUA IDEA DI CALCIO«A volte mi chiamano i miei ex giocatori. L’ultimo è stato Frey. Dice: ‘Mister, ma legge e sente commentatori che applaudono alla costruzione dal basso? Ma a Parma giocavamo così vent’anni fa.’ Ha ragione Seba. Facevo così anche a Firenze e, attenzione, allora i calciatori non potevano entrare in area per palleggiare con il portiere. Nel calcio puoi scomporre i principi, ma i concetti sono quelli. Creare superiorità, attaccare la profondità, avere equilibrio. Le cosiddette marcature preventive… Anche quelle le utilizzavamo decenni fa. Un po’ di responsabilità l’hanno anche i commentatori che vogliono vendere un prodotto. Ma il calcio non si vende, si gode. Troppi commenti, abbiamo perso l’emozione per un gesto tecnico. Una volta ci si ricordava della rovesciata di Vieri, del tacco di Mancini, della corsa di Vialli. Adesso sono soltanto statistiche, vedi il possesso palla. Ecco, che palle!»

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