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·21 January 2025
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L’Italia rimase sotto shock quando il centrocampista del Perugia Renato Curi morì in campo nel 1977 durante una gara con la Juventus. Il figlio si chiama come il padre, è nato dopo la sua scomparsa e a La Gazzetta dello Sport ha concesso un’intervista fatta di memoria e affetto.
QUEL PERUGIA-JUVE – «Ho fatto i conti con quella partita da quando sono nato ma lo spartiacque è stato la mostra fotografica che abbiamo allestito a Perugia nel 2017. Sono generalmente molto riservato e di solito era sempre mia sorella Sabrina a presenziare. In quell’occasione mi sono esposto in prima persona e ho pubblicamente raccontato la storia e l’amore che provo per mio padre».
É STATO UN RAGAZZO ARRABBIATO – «Mai. Non mi appartiene. Semmai, sono stato un ragazzino che ha cercato di dare fastidio il meno possibile».
CHI ERA RENATO CURI – «Difficile rispondere. Anche con le testimonianze che ho ascoltato nel tempo, in famiglia e fuori, è difficilissimo ricostruire qualcosa che si può avvicinare al reale, si resta sul superficiale perché comunque si va su quello che uno trasmette, sull’apparenza, su ciò che la gente percepisce. L’idea che mi sono fatto, sulle cose che ho sentito io, negli sguardi delle persone, nei loro silenzi che a volte sono più eloquenti delle parole, penso che papà fosse una persona concreta, una persona che è riuscita a fare il suo percorso sempre con il sorriso sulle labbra. E io questa cosa non è che l’ho ripresa tanto… Lui era come lo vedevi nelle foto. Sorrideva sempre. È riuscito fra mille fatiche a fare quello che voleva fare, gli piaceva giocare a pallone. Ma aveva mille interessi, la fotografia per esempio. E anche se non avesse più giocato a calcio, avrebbe trovato qualcosa da fare con la medesima soddisfazione. Prendeva le parti migliori della vita, era allegro, amichevole, si godeva le cose. Ed era una persona responsabile, come succedeva allora. È morto a 24 anni e nelle foto sembra che ne avesse 40, due figli, una famiglia. In 24 anni ha fatto quello che ho fatto io in 40… Ogni volta che lo vedo in foto, lo vedo adulto, non il ragazzo che in fondo era per età».
IL CALCIO OGGI – «Non lo seguo. A casa mia non viene seguito, mio figlio Aurelio non sa nulla. Mia madre Clelia e mia sorella Sabrina lo seguono di più. Da piccolo un po’, ho giocato fino ai 12-13 anni, poi dopo partite, tv, poco o niente. Anche perché io ero legato a un calcio differente, quello che mi legava era un affetto differente, crescendo non l’ho riconosciuto più quel tipo di sport che avevo conosciuto dai racconti di mamma e dei compagni di papà».